11/10/2018

Vita e morte pari non sono, cari radicali

«Hai una sofferenza insopportabile? Sei depresso e non vedi sbocchi nella tua vita? Alzarti al mattino ti è diventato un incubo? Tranquilli, c’è un rimedio infallibile: togliersi la vita. Così in un attimo elimini la sofferenza, recuperi la pace e la libertà».

Questo, in sintesi, il messaggio che ci viene dalla propaganda radicale sul fine vita. Ammazzarsi per risovere i propri problemi e stare finalmente bene.

Peccato che tutto ciò sia completamente falso. O, quantomeno, una illazione senza fondamento, non verificata e non verificabile. Nessun morto è mai tornato sulla terra a dirci che non soffre più. Nemmeno Piergiorgio Welby, DJ Fabo o la povera Eluana Englaro (per citare le principali icone radicali della tesi per cui uno si libera dalla sofferenza con la morte) sono mai apparse “postume” per confermarci questa ipotesi. Che rimane pertanto una teoria metafisica, senza alcun fondamento scientifico, e non verificabile nella realtà. Come parlare del sesso degli angeli.

Ma c’è di più: questa teoria della “morte che libera dalla sofferenza” è anche un assurdo logico. Se infatti la persona muore, sparisce il soggetto cui poter assegnare un qualsiasi attributo. Di lui non si può più dire nulla, né che soffre, ma neanche che non soffre. Come un attaccapanni che viene buttato via, e sul quale non si può più appoggiare nessuna giacca.

A questo punto, assurdo per assurdo, perché non dire il contrario esatto di quello che affermano i radicali, e cioè che la morte, invece di liberare dalla sofferenza, la aumenta all’infinito e la porta alle sue estreme conseguenze? Se qualcuno si ritiene in diritto di sostenere una affermazione non dimostrata e non dimostrabile, come quella per cui “la morte libera dalla sofferenza”, qualcun’altro, con la stessa disinvoltura potrebbe affermare che la morte non libera da un bel niente, ma ti condanna a una sofferenza ancora maggiore di prima.

I radicali stessi, se fossero onesti e “laici” come dicono, dovrebbero come minimo presentare alla gente anche questa prospettiva. Ma non lo fanno perché in questo caso l’adesione dell’opinione pubblica a eutanasia, DAT e suicidio assistito correrebbero il rischio di non essere più così facile.

Rimane un fatto: ciò che la propaganda radicale sta diffondendo è una colossale illusione. L’illusione, appunto, di pensare che la morte possa risolvere il problema del dolore e della sofferenza. Una illusione comprensibile, perché sppiamo che la gente, di fronte situazioni non dominabili, cerca di dominarle in qualche modo, anche irrazionale. Basti pensare agli oroscopi o alla chiromanzia, cui molti si affidano per predire il futuro, anche se l’affidabilità di questi metodi è destituita da ogni fondamento.

L’affidarsi alle illusioni, spacciate come “verità indiscutibili”, dimostra però che alla base della ideologia radicale non c’è la libertà o i diritti, bensì l’irrazionalità e l’abuso della credulità popolare. E anche una grande dose di delirio di onnipotenza. Solo il delirio di onnipotenza può giustificare, infatti, la pretesa di avere una soluzione per tutto. Compreso l’atto estremo di dire «adesso distruggo la mia vita stessa e così risolvo i miei problemi». Senza considerare che, quando la mia vita è finita, i problemi non li ho risolti, ma li ho solo elusi. Ho eliminato per sempre la possibilità di risolverli. E non ho certo messo fine alla mia sofferenza.

«Ma ognuno deve essere libero di fare quello che vuole della sua vita», replicano i radicali.

E qui veniamo all’ultimo punto. Quello della presunta “libertà” che ci sarebbe nell’ atto di togliersi la vita.

In realtà questa libertà non esiste, perché ogni atto di libertà richiede un soggetto in grado di rendersi conto dell’atto di libertà appena esercitato. Ma quando l’atto di (presunta) libertà è quello di darsi la morte, sparisce proprio il soggetto che potrebbe fare questo.

«Liberi fino alla fine», dice lo slogan radicale. In realtà quello che loro intendono è «liberi oltre la fine». Loro si illudono (e illudono la gente) che una persona morta in realtà non sia morta, ma sia ancora viva, lì a rimirarsi e compiacersi degli atti preedenti, e per di più “liberato” dalla sofferenza. Come uno che torna a casa dopo una giornata di lavoro e si butta nella vasca da bagno, per poi sdraiarsi in salotto pensando «meno male che adesso sono a casa e mi sono liberato dallo sporco e dal sudore di prima». O come uno che si siede davanti alla TV col telecomando e gira i canali finchè non ne ha trovato uno giusto. Peccato che la vita non funzioni così. Quando hai schiacciato certi tasti del telecomando, non hai cambiato canale, ma semplicemente non ci sei più. Certo ci sarà ancora la tua anima, ma non è la stessa cosa.

Angelo Mandelli

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