11/10/2018

Prima della 194: le origini dell’aborto legale

Fino al 1975 l’ordinamento italiano vietava e puniva l’aborto procurato sempre e comunque. Dal Codice Zanardelli del 1889, che (correttamente) lo inseriva fra i delitti contro la persona, al Codice Rocco del 1930, che influenzato dall’ideologia fascista lo trasferì (impropriamente) nella categoria dei reati contro l’integrità e la sanità della stirpe, l’aborto è sempre stato perseguito come illecito penale. L’art. 546 c.p. proibiva l’aborto procurato alla donna consenziente, che rispondeva pertanto del medesimo reato con la pena della reclusione da 2 a 5 anni. L’unica eccezione (o, più esattamente, rinuncia alla pena) era rappresentata dallo stato di necessità ex art. 54 c.p.: l’aborto era scriminato qualora posto in essere al fine di salvare la gestante dal pericolo attuale (non altrimenti evitabile) di un danno grave alla persona, sempre che il fatto (dell’aborto) fosse proporzionato al pericolo. La vita del concepito era cioè equiparata a quella della madre e solo uno stato di necessità consentiva di giustificare l’intervento abortivo che, beninteso, non si trasformava in diritto, non veniva regolarizzato ma soltanto tollerato come extrema ratio per evitare il sacrificio di un bene equivalente.

Nel 1975 la Corte Costituzionale scardina questo impianto con la storica sentenza n. 27, che getta le basi per la legalizzazione. La Corte dichiarò la parziale illegittimità dell’art. 546 c.p. nella parte in cui non prevedeva che la gravidanza potesse essere interrotta in caso di «danno, o pericolo, grave, medicalmente accertato nei sensi di cui in motivazione e non altrimenti evitabile, per la salute della madre». La pronuncia si basa su due considerazioni fondamentali:
1) da un lato la Corte ritiene che «il danno o pericolo conseguente al protrarsi di una gravidanza può essere previsto, ma non sempre è immediato», giudicando perciò irragionevole, in relazione all’ipotesi di una gravidanza pericolosa, il requisito dell’attualità del pericolo richiesto dall’art. 54 c.p.;
2) dall’altro, la sentenza afferma che la scriminante in questione «si fonda sul presupposto d’una equivalenza del bene offeso dal fatto dell’autore rispetto all’altro bene che col fatto stesso si vuole salvare. Ora non esiste equivalenza fra il diritto non solo alla vita ma anche alla salute proprio di chi è già persona, e la salvaguardia dell’embrione che persona deve ancora diventare».

La gravità di questa affermazione non sta solo nella sua portata dirompente rispetto all’ordine giuridico che garantiva l’equilibrio tra il diritto alla vita della madre e quello del nascituro; ma prim’ancora risiede nel ricorso a una categoria strettamente filosofica, qual è quella di persona, da parte di una Corte che ha il solo compito di giudicare la conformità di una norma giuridica ad un’altra di grado superiore. Con questa assunzione la Corte Costituzionale non solo ha varcato i confini del proprio ruolo istituzionale abbandonando il campo del diritto e invadendo quello della filosofia, ma si è finanche fatta portatrice di una precisa istanza filosofica, proveniente da un dibattito plurisecolare tutt’ora aperto, come se fosse un dato acquisito e del tutto pacifico. Così, per via giurisdizionale, è stato giuridicizzato il cardine dell’antropologia funzionalista che distingue tra essere umani persone ed esseri umani non-persone; peraltro senza l’indicazione di alcun fondamento argomentativo (Cfr. C. Casini, Diritto alla vita. La vicenda costituzionale, Napoli 1982, pp. 37 ss.). Del resto, come argomentare una posizione che esula dalla propria competenza e che perciò non si sarebbe nemmeno potuta adottare? Su queste basi la Corte elabora una sentenza viziata da almeno due insanabili contraddizioni.

In primo luogo si assiste a quello che è stato giustamente definito «un vero e proprio cortocircuito della logica razionale» (M. Palmaro, Ma questo è un uomo, Indagine storica, politica etica, giuridica sul concepito, Cinisello Balsamo 1996, p. 102). La Corte, infatti, osserva: «Nel vigente codice penale l’aborto volontario è rubricato come “delitto contro l’integrità della stirpe” (libro II titolo X c.p.). Secondo i lavori preparatori e la Relazione del Re che accompagna il codice, il bene protetto è “l’interesse demografico dello Stato”. Il codice precedente, invece, considerava l’aborto fra i “delitti contro la persona”, e questa sembra essere la più giusta collocazione». Affermazione che precede di poche righe quella secondo cui il concepito «persona ancora deve diventare». Ogni commento è ovviamente superfluo.

In secondo luogo, e più in generale, la Corte riconosce «che la tutela del concepito – che già viene in rilievo nel diritto civile (artt. 320, 339, 687 c.c.) – abbia fondamento costituzionale», ma omette di risolvere (semplicemente alla luce del diritto positivo) la questione che è presupposto logico di tale tutela, e cioè se il nascituro sia o no un essere umano. La contraddizione si fa più evidente quando la Corte osserva che «l’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali non può non collocarsi, sia pure con le particolari caratteristiche sue proprie, la situazione giuridica del concepito»; per poi negare a quest’ultimo lo statuto ontologico di persona. Appare particolarmente arduo il tentativo di conciliare una situazione giuridica connotata da diritti addirittura inviolabili con la condizione di un soggetto che non è persona.

In ogni caso con la pronuncia del 1975 la Corte Costituzionale non intendeva, almeno esplicitamente, trasformare l’aborto procurato in un diritto soggettivo. Questo è un aspetto essenziale da tenere in considerazione nell’analisi della vicenda che ha condotto alla legge 194. Il tenore della sentenza n. 27, nonostante le gravi contraddizioni da cui è viziata, è molto chiaro: la ratio della decisione è di estendere i casi di non punibilità ampliando l’area di applicabilità dell’art. 54 c.p., ma non di liberalizzare la pratica abortiva. Infatti, la Corte avverte che è «obbligo del legislatore predisporre le cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza serii accertamenti sulla realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della gestazione: e perciò la liceità dell’aborto deve essere ancorata ad una previa sussistenza delle condizioni atte a giustificarla». Tuttavia è ragionevole pensare che proprio a causa delle incongruenze interne alla decisione, che per un verso afferma e per l’altro nega l’inviolabile dignità del concepito, sia stato possibile approdare a una legge totalmente noncurante dei diritti del nascituro. Una legge che è degna erede della citata sentenza: allo stesso modo cade in contraddizione e allo stesso modo spiega i suoi effetti, con un vero e proprio gioco di equilibrismo in antitesi tra forma e contenuto.

Vincenzo Gubitosi

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