20/06/2018

Aborto non è scelta: oltre a Letizia, Anna

Dopo la storia di LetiziaSusannaGiuliaRossana e Liljana, Elena e Camilla, un’altra testimonianza, la storia di Anna, che è a lieto fine, ma che evidenzia un altro motivo per cui l’aborto non è né un atto di autodeterminazione, né una libera scelta.

Ed è purtroppo un caso estremamente diffuso, il ricatto – spesso velato, silenzioso e formalmente “legale” – che subiscono le donne incinte (in modi diversi, anche non espliciti) che sono costrette a “scegliere” tra il lavoro e il bambino che portano in grembo

Anche se non mancano esempi di datori di lavoro virtuosi, come Roberto Brazzale, è proprio il clima culturale che si è creato negli anni che impedisce alle donne che lavorano di fare figli. E che – soprattutto – costringe le donne a lavorare perché “con un solo stipendio non si sbarca il lunario”.  

Ecco l’ennesima testimonianza dei volontari della Comunità Papa Giovanni XXIII, pubblicata su Notizie ProVita nel febbraio 2015. 

«Ti avevamo assunta perché non saresti rimasta incinta!»

È noto che nella nostra società le donne subiscono forti pressioni sul luogo di lavoro perché ritardino o evitino le gravidanze. Numerose sono le testimonianze di donne che si sono sentite chiedere al primo colloquio se pensavano di mettere al mondo dei figli, o che sono state invitate con minacce più o meno velate a non rimanere incinte.

È ovvio, dunque, che quando la gravidanza arriva, possa portare con sé anche inviti più o meno espliciti ad abortire.

Oggi in realtà i datori di lavoro non hanno neppure più bisogno di ricorrere a minacce o pressioni: sempre più spesso i contratti sono a tempo determinato, pertanto quando arriva una gravidanza semplicemente alla donna non viene rinnovato il contratto.
In questi casi per una donna essere incinta significa automaticamente perdere il lavoro (e poi c’è chi si domanda ancora se è giusto dare aiuti economici alle gestanti…).

Le pressioni le subisce invece coloro che hanno contratti più stabili.

Ascoltiamo a questo proposito il racconto di Anna (nome di fantasia). È una storia emblematica di un clima che da molto tempo non è mutato.

«Vivo in una città dell’Emilia-Romagna. Mi sono sposata giovane e ho avuto presto due figli. Nel 2003 ho scoperto di essere nuovamente incinta. Allora lavoravo in una piccola impresa artigiana. Quando ho comunicato loro di essere incinta, mi hanno risposto: “Ti avevamo assunta perché avevi dei figli già grandi, non ci aspettavamo questa gravidanza; ora che sei incinta ti lasciamo a casa!”.

Allora mi hanno fatto vedere una lettera di dimissioni dove c’era già la mia firma.

Evidentemente quella firma l’avevo fatta io al momento dell’assunzione: infatti mi avevano dato molte carte da firmare, e io non ho fatto caso a cosa c’era scritto su ognuno dei fogli.

Sono andata allora al sindacato a denunciare la cosa. Loro mi hanno detto che per legge non è possibile per una donna incinta dimettersi né essere licenziata senza il consenso dell’Ispettorato del Lavoro; questo per evitare che vengano esercitate pressioni sulla donna.
Siamo andati all’Ispettorato, che ha convocato i datori di lavoro (madre e figlio), che hanno dovuto prendere atto che non potevano lasciarmi a casa.

Io però sono rimasta così male che ho deciso di non continuare a lavorare lì. Il sindacato, per venirmi incontro, ha proposto che io fossi licenziata solo al termine della maternità obbligatoria, per usufruire della mobilità retribuita di un anno. Se i datori non avessero accettato, sarebbero stati denunciati per avermi fatto firmare le dimissioni in bianco.
Loro hanno accettato, pertanto a fine maternità obbligatoria sono stata licenziata per ‘riduzione del personale’.

Anna da allora ha continuato arrangiandosi con lavoretti occasionali, soprattutto presso conoscenti.

Tante altre Anne continuano a subire le conseguenze di un mondo del lavoro che ha sempre meno regole e sempre meno tutele, che guarda all’utile dell’azienda e non al benessere dei lavoratori; dove pertanto la gravidanza viene vissuta come un intoppo, una scelta solo personale, quasi egoistica, per cui chi la sceglie se ne deve accollare tutto il peso».

Andrea Mazzi

Foto: Ettore Tito, Mondine in Polesine, 1941

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