29/04/2019

Scoraggiare il suicidio e legalizzare l’eutanasia: il paradosso californiano

Il governo della California ha speso 200 milioni di dollari per la costruzione di reti anti-suicidio a ridosso di ponti e monumenti. Fin qui non ci sarebbe nulla da eccepire, se non fosse che il medesimo Stato americano è tra quelli che hanno legalizzato l’eutanasia. Ciò che viene incoraggiato negli ospedali, viene scoraggiato al di fuori delle strutture sanitarie.

Il paradosso è sfuggito alla maggior parte dell’opinione pubblica ma non a un parroco della diocesi di San Francisco. «220$ milioni per salvare circa quaranta vite all’anno non è irragionevole, ma se ordinassimo meglio le nostre vite non avremmo bisogno di costruire reti intorno ai nostri monumenti pubblici», fa notare monsignor Joseph Illo sul suo blog.

«Sarebbe molto meglio», sottolinea il sacerdote, «molto meno costoso e molto più bello, spendere le nostre energie costruendo una cultura che incoraggia la vita piuttosto che la morte. Se ogni film deve incantare con la morte violenta, se la morte è la soluzione migliore alle gravidanze indesiderate, se e si celebra la morte per mano propria (come hanno fatto i media trasmettendo in diretta il suicidio assistito di Brittany Maynard), allora perché costruire reti anti-suicidio? Se siamo innamorati della morte, troveremo sempre altri modi per ucciderci».

«Ogni suicida che sopravvive dice che il suicidio è un errore», aggiunge monsignor Illo. «C’è molto più bene nella vita di quanto male si pensi. Forse le reti anti-suicidio daranno alle persone una seconda possibilità. Ma sarebbe molto meglio aiutare le persone prima che raggiungano quel livello di disperazione».

Alla radice del provvedimento statale, infatti, c’è la constatazione del sensibile aumento dei suicidi in California, addirittura del 6,3% in più nel 2015, anno dell’introduzione del suicidio assistito. Gli effetti culturali della nuova legge si fanno dunque sentire: se è lecito farsi togliere la vita per mano altrui, in clinica o in qualunque struttura preposta, perché allora non farlo da soli, evitando di attenersi a strazianti protocolli? Ovviamente la responsabilità del fenomeno risiede anche nella diffusione massiccia di film, e altri prodotti della sottocultura pop, che celebrano il male di vivere e in cui il suicidio viene rappresentato attraverso tinte pseudo-romantiche.

Di sicuro le ingenti somme investite per la costruzione di reti-antisuicidio potrebbero essere investite, piuttosto, in cure per malati terminali o anche in progetti per la prevenzione del disagio giovanile. Ma forse questo diventerebbe il granello di sabbia in grado di scardinare l’oleato meccanismo della “dolce morte”. Un meccanismo ideologico che, evidentemente, porta acqua al mulino di taluni.

Luca Marcolivio

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