21/05/2013

Da “morti viventi” a “gravi disabili”: gli stati vegetativi nella scienza

Nel 1952 il neurologo J.D. French dichiarava che “quando il cervello è gravemente lesionato da provocare un coma profondo, il paziente può vivere qualche giorno o, al massimo, 2 o 3 settimane”. Solo vent’anni più tardi, nel 1972, un neurochirurgo scozzese, B. Jennet, ed un neurologo americano, F. Plum potevano affermare che lo sviluppo tecnologico consentiva di trattare pazienti con gravi lesioni cerebrali “allungando la vita, e dando origine a condizioni cliniche mai incontrate in precedenza”. Si parlò di “coma vigile”, volendo evidenziare che si trattava di pazienti “vigili”, con gli occhi aperti, ma non in grado di comunicare e di relazionarsi con l’ambiente circostante. Altri coniarono il termine di “coma apallico”, volendo porre l’accento sul fatto che questi pazienti erano caratterizzati da gravi lesioni della corteccia cerebrale, luogo di integrazione delle cosiddette “funzioni simboliche superiori”, cioè delle capacità funzionali che oggi chiamiamo “cognitive”.

Dobbiamo arrivare all’inizio degli anni ’90 per assistere alla nascita di una terminologia assolutamente nuova: “Stato vegetativo”, con cui si descriveva una condizione clinica caratterizzata dalla conservazione dello stato di vigilanza, associata ad una gravissima compromissione della capacità di consapevolezza di sé stessi e dell’ambiente circostante. Nel 1994 la Multisociety Task Force on PVS decretava i limiti temporali oltre i quali lo stato vegetativo doveva essere considerato e dichiarato “permanente”, cioè “irreversibile”. Negli anni successivi, fino ai nostri giorni, da una parte la rilevazione empirica di casi clinici di “miglioramento” delle performance neurologiche, e dall’altro gli studi di neuroimaging (RMN funzionale e PET) e di neurofisiologia (stimolazione magnetica transuranica e studio EEG ad alta intensità) hanno fatto cadere i due “dogmi” su cui si reggeva l’assunto dell’irreversibile perdita della funzione cosciente: piccoli recuperi neurologici sono possibile e la coscienza non è totalmente persa, perché “isole” di funzione corticale cerebrale cosciente sono documentabili. Questi sono i presupposti scientifici che hanno portato a quella che potremmo definire una vera “rivoluzione” culturale ed antropologica nell’affrontare questo tema. Innanzitutto, va archiviata la dichiarazione di “assenza di coscienza” e s’impongono formule descrittive più adeguate, quali “coscienza sommersa”, “coscienza interna non comunicabile”, “stato della veglia senza risposta”.

In secondo luogo, sul piano antropologico appunto, la definizione di “vegetativo” è erronea, inadeguata e forviante, evocando riferimenti al mondo vegetale, che nulla ha a che fare con la persona umana. Da qui l’esigenza di un nuovo inquadramento, nell’ambito della categoria della “disabilità”. Ammesso e non concesso che abbia un senso stilare una sorta di classifica delle disabilità, potremmo considerarla la “più grave forma di disabilità” oggi nota. Pur non essendo in possesso di un registro nazionale delle persone con “disturbo prolungato di coscienza”, possiamo stimare in circa tremila il numero di nostri concittadini in questa condizione (60% circa in SVP e 40% in SMC), con un incremento che può aggirarsi intorno ai 300/400 nuovi casi all’anno. Nel 45% dei casi, la causa dello SV è rappresentata da un grave trauma cranio encefalico mentre il restante 55% è su base anossica cerebrale o vascolare acuta (ischemia o emorragia). L’età media di queste persone è di 55 anni, ma cala a 43 anni se si considerano solo i posttraumatici (80% maschi, 20% femmine). Circa la durata dello SV, mediamente la sopravvivenza è di circa 5 anni, ma ben il 16% delle persone ha superato i 10 anni, soglia che fino a pochi anni fa si riteneva essere il limite massimo di sopravvivenza.

L’assistenza richiede un accudimento intensivo quantizzabile in circa 4 ore al giorno (il 30% è alimentato per bocca ed il 70% riceve alimentazione enterale) e la famiglia costituisce un facilitatore sociale essenziale, soprattutto nelle regioni del Sud Italia, ove – per carenza di strutture adatte – il 75% di questi gravi disabili è curata a domicilio. 6 Il caregiver maggiormente coinvolto è una figura femminile (91% dei casi: mamma, moglie, figlia, sorella), che nel 38% dei casi deve rinunciare alla propria attività lavorativa, anche solo temporaneamente. Nel Nord Italia, il rapporto s’inverte: il 75% è assistito in ambiente dedicato (RSA, RSD, Casa di Riposo) ed il 25% fa rientro nel proprio domicilio. Su scala nazionale, solo il 25% dei casi può usufruire di un presidio di assistenza domiciliare integrata. Sul piano economico, il fondo nazionale per la disabilità è di 240 milioni di euro all’anno, di cui 20 milioni sono specificamente dedicati agli “stati vegetativi”. Pur con una certa variabilità da Regione a Regione, in generale per accedere agli aiuti previsti dal fondo nazionale è fondamentale la diagnosi stilata dai sanitari all’atto della dimissione dall’unità operativa di riabilitazione, ove viene dichiarato lo stato vegetativo con punteggio Glasgow uguale o inferiore a 10. Nel caso in cui la persona venga inserita in una struttura pubblica, l’intero onere è a carico del SSN; nel caso, invece, faccia ritorno a casa, ci si potrà avvalere di un contributo mensile di 500 euro. L’esperienza concreta sta già suggerendo una modifica della norma sopra descritta, perché può concretizzarsi un paradosso: qualora le condizioni cliniche della persona migliorassero, portandola, ad esempio, a un punteggio Glasgow di 11, si perderebbe il diritto al contributo, proprio nel momento in cui – al contrario – dovrebbe essere maggiore l’impegno riabilitativo, con relativo aumento di costi. Si propone, quindi, di legare l’accesso al contributo ad una costante valutazione della singola persona su due fronti: il fronte clinico – ove si stabiliscono gli effettivi bisogni del paziente – ed il fronte socioeconomico – ove si valutano le reali condizioni economiche della persona – al fine di evitare una distribuzione “a pioggia” delle risorse, che può penalizzare situazioni di reale e grave insufficienza.

Un’allocazione mirata è certamente l’atto più idoneo e virtuoso, data la condizione di grave penuria delle risorse necessarie. D’altro canto, è inammissibile per uno Stato civile, che tale vuole essere, praticare “tagli” sui fondi destinati alla disabilità. Anche in regime di “coperta corta”, come si suol dire, è doveroso che le “fasce deboli” (e non esiste nulla di più debole della grave disabilita!) vengano sempre e comunque tutelate. Sul piano strettamente sociosanitario, il tema degli stati vegetativi costituisce un problema di “nicchia”, riguardando una parte di popolazione, tutto sommato, numericamente esigua: circa 3mila persone, pur con il prevedibile aumento di circa 300/400 soggetti all’anno di cui si diceva poc’anzi, ma sul piano culturale ed antropologico assume il significato di un vero e proprio “paradigma” attraverso il quale leggere l’intero tema della disabilità e della dipendenza. E’ importante definire i soggetti in stato vegetativo “persone” e non pazienti (anche se l’abitudine medica rende più spontaneo parlare di “pazienti”), perché si sottolineano concetti che fondano i “diritti dei disabili”. Fa non poca differenza considerare la “persona in stato vegetativo” rispetto al “paziente affetto da stato vegetativo”: nel primo caso è prioritario “prendersi cura” – individuando i bisogni e strutturando le misure necessarie a darvi risposta – nel secondo caso ci si muove solo sul piano della “terapia”, che essendo, almeno per il momento, terribilmente povera di presidi reali, può indurre verso tentazioni di desistenza ed abbandono, tanto più in condizioni di risorse limitate. A riprova che non stiamo parlando di chimere fantastiche, basterebbe citare il cosiddetto “Liverpool Care Pathway” (2012), in cui viene proposto di comporre elenchi (death list) di pazienti terminali cui interrompere alimentazione ed idratazione artificiale, a giudizio medico ed anche senza il consenso dei parenti, sgravando il regio sistema sanitario britannico di costi inutili. La clinica che ottempera al suddetto suggerimento verrà “premiata” con un extra-bonus di 30mila sterline/anno. In questa prospettiva, acquista ancora più significato ed utilità la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone Disabili (2009) in cui si raccomanda di “prevenire il rifiuto discriminatorio di assistenza medica o di prestazioni di cure e servizi sanitari o di cibo e liquidi in ragione della disabilità” (art.25, comma F).

Prendersi cura delle persone in SV comporta un altro aspetto, che deve essere oggetto di grande attenzione e considerazione: la famiglia o, più in generale, i cosiddetti caregivers. Si potrebbe dire con una tautologia efficace “prendersi  cura di chi si prende cura”, ben consci di quanto impegno fisico e psicoemotivo richieda la diuturna assistenza dei grandi disabili. Oggi si parla di “burden”, cioè di “carico”: che tipo di “carico” comporta l’accudimento di una persona in SV. Il carico economico viene quantizzato nel 40% in termini di incidenza sul disagio familiare, il restante 60% è di natura “esistenziale”. Vivere accanto alla grave disabilità significa, in qualche misura, partecipare della disabilità stessa, facendo i conti quotidianamente con le forze a disposizione, con il continuo senso del limite che impone un pesante jatus fra ciò che si vuole, si deve e si può fare, generando spesso delusione, frustrazione, senso di impotenza o –peggio – di abbandono. Non a caso sono nate numerose “associazioni” (39, secondo un recentissimo censimento) di familiari di disabili in SV: una vera rete virtuosa che non solo interagisce con le istituzioni nel comporre idonee politiche di aiuto-sostegno, ma che si pone il compito di “condividere” le difficoltà di tutti. Ancora una volta, la “relazione” si mostra come la vera formula vincente di ogni disagio esistenziale e sociale. Come ci ha insegnato Madre Teresa: “quando per tutti sei nessuno, il dolore non ha più limite”. La condizione dei disabili in SV, letta nella prospettiva che ho cercato di disegnare nei suoi grandi contorni, è una vera “opportunità” antropologica e politica, un vero 7 banco di prova del grado di civiltà di un popolo: è – o può essere – l’occasione per cominciare ad assumere una nuova, rivoluzionaria categoria culturale ed umana, facendoci passare dal “peso” della dipendenza al “valore” della dipendenza.

di Massimo Gandolfini – Primario neurochirurgo
Direttore Dipartimento Neuroscienze
Poliambulanza Brescia
Vicepresidente nazionale Associazione Scienza & Vita

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