03/09/2013

Il sacrificio della madre, la salvezza del figlio

La vita di un nascituro di dieci settimane dipende totalmente dalla vita della madre. Tale è la condizione del feto che la madre venticinquenne ferita in pericolo di vita porta dentro di sé. Il tentativo dei medici è di tenere in vita la madre fino a che sia possibile rendere alla vita extrauterina il figlio. L’eccezionalità del caso ha origine da un evento sociale, la furia omicida di un uomo, pur addestrato ad usare armi da fuoco per sola difesa, non per offesa.

Ma ha come successiva caratterizzazione lo straordinario progresso della medicina, dalla chirurgia intervenuta sulla scatola cranica della donna ferita alla rianimazione perché l’operata è tenuta in coma farmacologico, alla ginecologia e natologia, che monitorizza l’accrescimento del feto. In altri tempi tutto si sarebbe concluso nel tragico evento.

Ogni riflessione etica sulle vicende della vita umana deve, non può non muovere dall’apprezzamento del mutamento storico in cui essa si svolge. L’organizzazione della medicina in tutte le sue specialità di intervento clinico è un segno, forse il più alto, certo il più benefico, che l’umanità, malgrado tutto, cammina sulla strada giusta. Questo cammino tuttavia ha le sue incertezze. Le virtù del medico non sono riducibili a mere abilità tecniche. Sono anche qualità di un’etica propria di quella professione, votata a produrre un risultato benefico, mai di male o di danno.

Nel caso che riempie di angoscia le cronache odierne, i medici sono mossi da due speranze, una maggiore che la madre possa sopravvivere e dar luogo al parto; una minore che il feto possa svilupparsi quanto basta per poterlo estrarre dal corpo materno. Questo secondo risultato presuppone che la madre sia stata tenuta in stato vegetativo, quasi un’incubatrice gestante più tecnologica che naturale. Ma quale sorte attende il neonato?

Egli è preso in carico da un altro specialista, un neonatologo esperto di terapia intensiva, perché il nato sottopeso va preservato da rischi di ipossiemia, che potrebbero destinarlo a condizioni di disabilità psicomotorie, o comunque comprometterne la vitalità.

Anche in questa incertezza prognostica, deve prevalere o deve essere abbandonato il protocollo della speranza? Il medico è assistito dalle statistiche di quanto è già accaduto nella casistica. Può giovarsi del calcolo di probabilità.

Se è un uomo di esperienza ma anche di scienza, saprà che questa procede svelando errori, e il passato può contenerne. Invece si dovrebbe tenere in conto l’eventualità di futuri ritrovati biotecnologici compensativi di disabilità neonatali. Non nascondiamoci che il medico si trova dinanzi a vere e proprie sfide o scommesse.

Egli non deve sentirsi solo. Della sorte del feto, quando sia in gioco la salute fisica o psichica della madre, la legge detta il criterio di bilancio delle due vite. Ma qui la madre non è più protagonista, che possa esprimere consenso informato in qualsiasi direzione, è oggetto, non soggetto. La famiglia potrebbe non avere univoca volontà. Il consenso alle decisioni del medico viene dalla società. E questa finora sembra esprimersi a favore della vita, non contro la vita.

Certo, ci sono evenienze in cui la scena è dominata dal medico. La bioetica tende a delegare le scelte decisive a entità pluralistiche il paziente, il coniuge, la famiglia, il fiduciario, la comunità dei curanti, ma alla fine l’esperienza e la scienza, al di là degli affetti e degli interessi, stanno da una parte sola. E questa è la parte del medico. Non possiamo che dirgli che vada avanti e che abbia buona fortuna.

di Francesco Paolo Casavola

Festini

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