26/12/2016

La vita è... unica e irripetibile, sempre!

Quando lo spermatozoo di mio padre e l’ovocita di mia madre si sono abbracciati quasi cinquant’anni fa, quello è stato il momento in cui ho cominciato ad esistere con delle caratteristiche uniche ed irripetibili determinate già prima del mio concepimento, dall’inizio della mia vita.
Nella fase di maturazione dei gameti che mi hanno generato il corredo genetico dovette prima dimezzarsi per potere tornare all’unità al momento del mio concepimento. In questo processo di divisione lo spermatozoo e l’ovocita portarono solo una metà dei caratteri genetici che mio padre e mia madre avevano acquisito dai loro rispettivi genitori, i miei nonni.

La modalità di ripartizione dei geni portò ad un numero di 223 combinazioni possibili, pertanto la probabilità che lo spermatozoo da cui fui formato portasse la stessa informazione genetica di un’altra cellula dello stesso tipo era di una su 8.388.608. La stessa cosa avvenne per la cellula uovo di mia madre, cosicché quando fui concepito, io fui il risultato di una delle 70.368.744.177.664 combinazioni possibili; più di settantamila miliardi di possibili esiti dell’amore di mio padre e di mia madre, e tra questi sono uscito io.

Ma non è tutto. La mia vita non è stata il pedissequo risultato della lettura di un manuale d’istruzioni scritto in codice chimico e ripiegato avvolto a doppia elica. Il mio libretto non era chiuso ermeticamente, l’ambiente dove stavo crescendo poteva apportare delle modifiche al testo ancora una volta usando una scrittura chimica di metilazione e demetilazione, silenziando alcuni geni e facendone esprimere altri in un processo che gli esperti chiamano “epigenetica”.

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Appena concepito attorno a me ci fu uno spettacolo pirotecnico fatto apposta perché il gamete scelto non dovesse subire terzi incomodi a cui hanno dato il nome di “reazione corticale”. Subito tra me e mia madre cominciò un dialogo, ancora una volta era in codice, un codice biochimico che la avvertiva della mia presenza, la avvisava di non considerarmi un corpo estraneo, un invasore, un nemico. La risposta fu immediata: mia madre disse al suo esercito immunitario di deporre le armi, anzi fece di più, mi assicurò i viveri per il mio primo viaggio attraverso il tunnel tubarico e nel frattempo si preparava ad accogliermi nel migliore dei modi. La sua ospitalità fu principesca, arrivò a dare il suo sangue per me.

Quando ebbi compiuto cinque settimane di vita cominciai ad inviare a mia madre degli ambasciatori (lei aveva fatto altrettanto), facevano parte del mio corpo diplomatico staminale che in modo molto discreto, dopo avere superato la frontiera placentare ed avere rinsaldato la nostra alleanza, navigarono per vie diverse fino a prendere residenza in ogni organo del suo corpo, pronte a svegliarsi e vestire l’uniforme di mia madre per difenderla, qualora fosse giunto un aggressore. Quelle mie cellule ambasciatrici portavano sulla loro superficie degli antigeni, così li chiamano gli scienziati, di mio padre. Rimanendo per sempre nel corpo di mia madre, quei microscopici aggregati di atomi donatimi da mio padre attestarono fino all’ultimo giorno di vita che il mio papà e la mia mamma si erano amati così tanto da volersi unire in maniera irreversibile anche nella carne. Quando ci penso mi vengono in mente le parole «cosicché non sono più due, ma uno».

Ora pare che questa cosa risulti incomprensibile a qualche cardinale che va dicendo a destra e a manca che una tale irreversibilità è un buco da cui non si può uscire. Mi sa tanto che se non la fa finita toccherà direttamente al dolce Cristo in terra spiegargli che Dio ha un fine senso dell’umorismo, ma è una persona seria; quando si è messo a creare ha subito scartato le bischerate.

Renzo Puccetti

Fonte: Notizie ProVitasettembre 2014, p. 18

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